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Qualche riflessione sulla riforma del catasto

09/04/2022

Come al solito quando di parla di riforme si usa la parola riforma senza mai chiarire in cosa consiste, a che scopo la si fa e a chi va a favore o contro. La “riforma del catasto” non fa eccezione.

Provo a capirci qualcosa. Il catasto non è altro che una mappa di tutte le costruzioni che ci sono nel paese. Come ben noto, il livello di abusivismo edilizio in Italia è elevatissimo e presumibilmente nel catasto esistente manca una parte non indifferente di intere costruzioni, per non parlare di modifiche di planimetria e volumi. Una riforma del catasto dovrebbe partire dal suo aggiornamento e funzionamento, una specie di censimento a tappeto simile a quello della popolazione, ma fatto da personale qualificato che spesso dovrebbe essere accompagnato dalla forza pubblica per avere accesso alle costruzioni.

Un simile intervento sarebbe non solo necessario ma indispensabile e presupposto a qualsiasi altro intervento sul patrimonio immobiliare.

Il problema è che una riforma di questo tipo sarà (sarebbe) molto costosa e molto lunga, probabilmente richiederebbe alcuni anni. Certo, prima si inizia meglio è, ma di questo aspetto della riforma non si parla molto e non mi è capitato di leggere nulla riguardo a come farla e i tempi per farla.

Ciò di cui invece si parla molto è di un altro aspetto: quello relativo alla riforma delle rendite catastali e di conseguenza ai valori monetari degli immobili. Su questo problema gli aspetti su cui ragionare a mio avviso sono due ed è importante tenerli separati: la perequazione delle rendite catastali e il ricalcolo (rivalutazione) delle rendite catastali.

Come sappiamo la rendita catastale è quel valore fittizio alla base del calcolo del valore monetario che si dà a una costruzione e che costituisce la base di qualsiasi intervento di carattere tributario. 

A)    Iniziamo dal primo problema: la perequazione. La struttura dei centri abitati ha subito negli anni enormi cambiamenti, cambiamenti che incidono pesantemente sul diverso valore di uso delle costruzioni e che sono alla base delle differenze anche del valore monetario.
Da questo punto di vista sembra che la struttura vigente delle quotazioni delle costruzioni sia molto antiquata e non corrispondente ai mutamenti avutisi nella struttura delle città. In breve, sono ingiuste e non corrispondenti alla realtà. Una parametrizzazione relativa dei valori d’uso delle costruzioni in base ai vari indicatori che definiscano le differenze nel valore d’uso sarebbe sacrosanta ed equa. Per far questo non serve assolutamente definire dei valori assoluti, bastano degli indicatori che poi potranno essere applicati per determinare i valori monetari delle singole costruzioni. Anche questo sarebbe molto utile che venisse fatto e potrebbe essere fatto abbastanza facilmente e velocemente servendosi di ingegneri, architetti ed esperti in piani regolatori e mobilità.

B)    Veniamo ora al secondo problema: la determinazione dei valori monetari che dovranno costituire la base per interventi di carattere tributario.
Su questo problema ci sono due strade da percorrere: la prima, quella prevalente, è di utilizzare come indicatori i prezzi di mercato; la seconda, di cui non si sente parlare, è di una valutazione di tipo politico/economico.
Dico subito che a mio parere l’utilizzo dei prezzi di mercato mi sembra sbagliato teoricamente e ingiusto. Il prezzo di mercato delle costruzioni è il prezzo che in un determinato momento una marginale parte del patrimonio immobiliare viene scambiato. Tale prezzo viene determinato da una serie di fattori che, anche se alla base hanno una quota che rispecchia il valore d’uso, hanno una quota aggiuntiva non secondaria di situazioni contingenti e volatili nel tempo: la situazione economica, la situazione demografica, la struttura familiare, la politica pubblica sulle abitazioni, la moda, ecc. La “preferenza” di scegliere il valore di mercato ha probabilmente alla base la diffusa, ma da sempre erronea, concezione che il mercato sia “perfetto” e nel suo funzionamento automaticamente determini prezzi giusti e equi. Niente di più sbagliato!
Altra cosa da aggiungere è che valutare uno stock, come è il patrimonio immobiliare, usando come misura il prezzo di un flusso marginale (le compravendite di un dato periodo) è un errore madornale, sia perché il prezzo delle vendite in un dato momento non può essere applicato al totale, come se fosse possibile vendere in quel momento a quel prezzo tutte le costruzioni esistenti, sia perché, essendo tali prezzi molto variabili nel tempo, dovrebbe essere continuamente aggiornata (in alto o in basso) la rendita catastale, fatto che comporterebbe incertezza sia in chi deve pagare sia in chi incassa.


La soluzione che a me sembra più semplice, corretta ed equa è invece quella di decidere due quantità: 1) un valore assoluto base sul quale applicare i parametri sulle differenze di valore d’uso determinate in precedenza; 2) il livello e la struttura delle aliquote della tassazione sul patrimonio immobiliare.

Le decisioni da prendere per determinare questi due valori non possono essere che economiche e politiche. Come esempio, il fine economico potrebbe essere quello di cercare di ottenere un volume assoluto di entrate che possano coprire la manutenzione e lo sviluppo delle strutture di funzionamento delle città; il fine politico potrebbe essere quello di applicare aliquote differenziate progressive, determinare quote di detassazione secondo parametri di reddito, ecc.

Questi criteri di scelta e valutazione avrebbero inoltre due grossi meriti: il primo, tecnico, di poter modificare facilmente e immediatamente i due parametri al mutare delle esigenze economiche, senza andare dietro a improbabili oscillazioni dei “valori di mercato”; il secondo è quello di rendere apertamente e “allo scoperto” responsabile il decisore politico delle sue decisioni, di cui dovrà rispondere al momento delle scelte elettorali.