Paolo Palazzi Blog

www.paolopalazzi.it

Il problema dell’Italia è che possediamo tanti (troppi) beni e ricchezze!

30/06/2021

Ho sempre pensato che tantissime città italiane e l’Italia nel complesso abbia un grosso problema di sovracapitalizzazione, nel senso di avere un volume di proprietà di beni aldilà della possibilità di mantenerli in buono stato e, eventualmente, a migliorarli.

Mi viene in mente il parallelo con la situazione di gran parte della nobiltà decadente, la quale, travolta dai cambiamenti economici e sociali, vede drammaticamente diminuire il reddito che le permetteva non solo un altissimo standard di vita, ma la manutenzione e l’allargamento delle proprie proprietà e beni.

Nel caso della nobiltà, quando si è nella situazione di avere proprietà non in grado di produrre reddito per la manutenzione del capitale e del proprietario, la via obbligata è quella di sostituire il reddito con la vendita delle proprietà, una via che porta alla morte economica e sociale dopo poche generazioni. C’è una via alternativa, che è quella del “suicidio sociale”, cioè la trasformazione delle proprietà in capitale produttivo, trasformarsi da nobili a borghesi capitalisti.

Che cosa c’è di simile nelle nostre città e in Italia?

Per motivi storici e culturali il nostro paese è enormemente ricco di proprietà finite in mano pubblica. Nonostante lunghi periodi in cui la politica scelse (e alle volte sceglie ancora) di alienare a favore del profitto privato una elevata quantità di beni di enorme valore naturale, storico e culturale, ancora oggi il nostro paese ha la fortuna naturale e storica di possedere una enorme concentrazione, rispetto al suo territorio e alla popolazione, di beni di proprietà pubblica. La gran parte di questi beni per la loro utilità sociale, economica culturale e naturale sono di difficile e controversa possibilità di gestione.

Provo a proporre una casistica raggruppandoli di quattro categorie:

1)    Beni indispensabili alla vita sociale ed economica del paese (strade, porti, aeroporti, linee ferroviarie, ecc.)

2)    Beni utili e spesso indispensabili per la vita fisica e spirituale della popolazione (beni naturali, acque, vegetazione, aria, panorami caratteristici, ecc.)

3)    Beni di valore culturale (l’elencazione e difficile perché legata alla soggettività e al livello culturale collettivo che si modifica nel tempo, ma quale che sia la definizione la quantità è immensa)

4)    Beni che non hanno le medesime caratteristiche dei tre precedenti, ma che vengono utilizzati per le normali attività pubbliche (parco edifici, beni strumentali, ecc.)


Come tutti i beni, anche quelli di possesso pubblico per svolgere e mantenere la loro capacità di utilizzo, implicano la necessità di una manutenzione e di continuo miglioramento, pena la perdita della loro utilità e fino a raggiungere utilità negativa. Ovviamente questo implica necessità di impegnare risorse a tale scopo.

In un sistema ideale un bene dovrebbe avere la capacità di essere utilizzato in modo tale da creare autonomamente le risorse per la sua manutenzione e il suo miglioramento, se poi fosse in grado di produrre reddito aggiuntivo sarebbe vero e proprio capitale produttivo.

Quali delle categorie sopra elencate possono potenzialmente avere questa capacità?

Eliminiamo due possibilità. Nel caso dei beni pubblici è impensabile che il comportamento sia simile a quello della nobiltà decadente che sopravvive vendendo una alla volta i propri beni. Certamente in moltissimi casi l’alienazione di beni pubblici è stata portata avanti, basti pensare al periodo dello smantellamento delle partecipazioni statali, ma nella maggioranza dei casi la motivazione non fu quella sistematica di finanziamento dello stato (anzi in alcuni casi si verificò il contrario vendendo beni che fruttavano reddito), ma le motivazioni furono più ideologiche e politiche. La seconda alternativa è quella di cercare di utilizzare tali beni in modo che possano autofinanziare la loro sopravvivenza. Anche questa seconda alternativa in alcuni casi è stata utilizzata principalmente attraverso la concessione a privati della gestione per profitto di beni pubblici (pensiamo alle autostrade, ai litorali marini e dei laghi, ai beni confiscati, uso privatistico di alcuni beni culturali, ecc.). Indipendentemente dalla valutazione dei risultati e dell’efficacia è indubbio che anche questa non può essere considerata una alternativa generalizzata a tutto il patrimonio pubblico.

Resta quindi una sola alternativa: principalmente la imposizione generalizzata e solo in parte marginale di tasse di scopo.


Mi sembra di aver fatto ragionamenti abbastanza elementari, dove sta quindi il problema?

Il problema è anch’esso semplice: nel bilancio pubblico, nella sua stesura e programmazione, non c’è mai stato un aperto e chiaro esame della situazione dei beni pubblici. Quali mantenere e quali abbandonare, come mantenerli, come e quanto finanziarne il loro stato in vita?

Niente di tutto questo, come si dice si naviga a vista, volta per volta, quando il livello di distruzione del bene pubblico diventa politicamente insopportabile.

La cosa dovrebbe essere più evidente almeno a livello locale, dove gli effetti negativi di una mancanza di programmazione risultano immediatamente evidenti. Mi riferisco ad esempio alle strade, al verde e al parco edilizio pubblico nelle città. 

Sulla carta non sarebbe un compito difficile: basterebbe basarsi sul kilometraggio di strade piazze e di marciapiedi, sui metri quadri di verde pubblico e, come un qualsiasi buon condomino, sulle spese di gestione degli edifici pubblici.

Il problema però è più complesso rispetto alla capacità di programmazione ed efficienza degli enti che sono preposti alla gestione dei beni pubblici. Anche ammesso che tale valutazione e programmazione venga fatta, sono convinto in modo assoluto che il risultato porterebbe a degli impegni teorici di spesa molto al di sopra della possibilità degli attuali bilanci, sia a livello locale che nazionale.


Se questo è vero, e sono convinto che lo sia, allora ci potrebbe essere un’altra spiegazione del perché questo non si fa, e quella che mi viene in mente è una spiegazione politico-ideologica.

Una volta fatta la valutazione e la programmazione della gestione e manutenzione dei beni pubblici, il discorso che dovrebbe venir fatto dagli amministratori ai cittadini dovrebbe essere chiaramente il seguente: se volete un paese e delle città le cui ricchezze vengano mantenute vive e in buono stato per tutti, una quota elevata del vostro reddito va devoluta a tale scopo, quella che già pagate non è sufficiente e questo comporta una più o meno lenta distruzione dei beni pubblici con effetti sulla qualità e benessere dei cittadini. È una scelta che dovete fare, altrimenti è inutile lamentarvi!

Quali sono le obbiezioni a un tale discorso?

Il cittadino: i soldi non bastano perché rubate o/e i soldi non bastano perché non siete efficienti.

Le amministrazioni: i soldi non bastano perché non tutti pagano il dovuto.


Hanno ragione e torto entrambe le parti, come avevano ragione i nobili che accusavano i loro amministratori di rubare nell’amministrare i loro beni e i borghesi che accusavano i nobili di non saper gestire con profitto i loro beni. In quel caso la storia ha fatto vincere la borghesia, nel conflitto attuale ho invece impressione che perderemo tutti.